Terrestrità e trascendenza in “L’ape e il calabrone”
di Carmelo Consoli recensione a cura di Ermellino Mazzoleni Carmelo Consoli, poeta prolifico, saggista, critico letterario e d’arte, nato a Catania, vive e lavora a Firenze da moltissimi anni, è vincitore d’importanti premi letterari, fra cui il “Città di Narni”, con la silloge Un amore chiamato Firenze, 2009. Altre raccolte poetiche sono Il canto dell’Eremita, 2005; Percorsi quotidiani, 2006; Strade con vista paradiso, 2009; Cortometraggi, 2011; la sua più recente produzione lirica è L’ape e il calabrone, edita nel gennaio 2012. L’autore è segretario generale della Camerata dei Poeti di Firenze, collabora come critico letterario e d’arte con parecchie associazioni culturali ed è membro di giuria di alcuni prestigiosi premi letterari, fra i quali il Premio Nazionale di Narrativa Lucia Iannucci Mazzoleni. L’ape e il calabrone si apre con una lirica commovente, di cui si citano i primi versi. E sia donna, moglie, madre. E abbia il cuore aperto dei mari, delle piane, gli occhi azzurri del cielo, il profumo dei fiori di campo. E viva per sorridere, amare nello stupore delle piccole e semplici cose della vita. In questa raccolta lirica si svolge un discorso soavissimo: l’intimo, ultimo colloquio dell’amato con la sua sposa da poco tramontata. Di fronte al mistero insondabile della morte le parole acquistano un significato singolare, una verità più vera, investono una visione consuntiva dell’esistenza trascorsa insieme, per cui le gioie, gli affetti, la figlia sono visti con uno sguardo retrospettivo e stupefatto, hanno il sapore dell’addio alla vita. Ho un canto nel cuore è un incipit di vasto respiro che rivela l’incontro di due persone perdutamente innamorate. Canto il tempo che non so della disperazione, dei silenzi, dei perché, quello delle primavere finite, dell’eterno vagare delle solitudini, dei pianeti senza bellezza. Canto la mia donna dagli occhi azzurri l’ape che mi calò nelle pupille di calabrone solitario tra acque e vulcani nell’azzurro tempo di cieli, terre, nel lampo delle comete lucenti. Si realizza l’incontro fra la donna e l’uomo: lei, Franca, della terra di Romagna avvolta nel profumo dei fiori di primavera, dei frutti succosi, sotto i soli splendenti dell’estate; lui, Carmelo, uomo del Sud, odoroso di venti marini, di arance e limoni. Insieme, tessono un amore denso di romanticismo e d’incanti a formare la storia di una vita, dove è rappresentato il momento della passione e della gioia, a cui segue quello amaro, aspro, doloroso della malattia che colpisce l’amata. Inizia la storia-calvario del ricovero in ospedale, delle analisi cliniche, delle speranze e dei timori e come icasticamente scrive il poeta “della morte annunciata”. Si alternano “bugie e inganni, amarissima cicuta da ingoiare” per non far trapelare il destino fatale a Franca; si concretano, inoltre, una sequela di domande a Dio, le speranze e le disperazioni. L’ape e il calabrone rappresenta il diario quotidiano di ventitré giorni di malattia che si snoda fra la vita e la morte, fra angosce e invocazioni fino al respiro finale. Oltre che all’interno dell’ospedale, lo sguardo dell’autore è volto all’esistenza che fluisce al di fuori: agli uomini di colore del parcheggio che hanno dietro di loro una diversa origine, differenti civiltà, altre costumanze e tradizioni. Carmelo si muove nelle corsie e nelle camere fra macchinari che tengono artificialmente in vita la sposa, fra chemioterapie e morfine, fra i dolcissimi ricordi di una lunga e felice esistenza con Franca. Mi portavi il miele degli occhi zaffiri, l’aroma dei seni di albicocca. Non potevo, non potevo ignorarti. Eri l’angelo annunciato segreto, esile, biondo. Quaranta anni mi hai vegliato, fiore prezioso, odore di spigo e gelsomino; quaranta anni ti ho amata stella cometa tra i pianori. Si assiste a un’alternanza d’impietose descrizioni della malattia e di lampi lirici della maliosa Romagna. Il poeta sente il bisogno di dimenticare per qualche attimo il dolore che lo divora, ricorda il trepido incontro con la sua donna, l’innamoramento, gli anni gioiosi, la nascita della figlia. Consoli si esprime in una prosa ardente d’impeto amoroso, sotto la forma di una fiaba. I due innamorati sono descritti mediante un procedimento mimetico: lei l’ape Zoe, lui il calabrone Nerosole. Sono pagine che esaltano la bellezza, l’attrazione fatale, e insieme, i paesaggi di Romagna, le pianure assolate, i mattini nebbiosi, i tramonti dorati, lo splendore del Sud con il mare scintillante, il profumo inebriante dei gelsomini. L’empito lirico è colto sapientemente da Anna Balsamo nella Presentazione: “Carmelo Consoli è poeta che sempre più riceve attestazioni di ammirata stima, la sua poetica a ogni libro evolve arricchendosi. È portato alla costruzione soave del lirismo”. L’autore torna alla realtà drammatica con il vorticoso avanzare della malattia, le visite degli amici smarriti, che propongono il mondo del comune lavoro, quindi la nascita della figlia Monica, ricordo bellissimo e struggente. Nacque dal tuo ventre leggero di ape regina nostra figlia. Nacque nel tempo che gli astri brillavano nei nostri occhi come diamanti. Nacque da tutte le generazioni felici, dai sorrisi dei pianeti, dai raggi delle albe dorate. dai bagliori dei tramonti vermigli d’occidente e d’oriente. Segue il momento dell’assenza, quando lo sposo rimasto solo, misura il vuoto della casa e della propria anima; poi con la solitudine appaiono il rimpianto di ciò che è stato, il desiderio di riavere l’amata, di avvolgerla in un abbraccio amoroso, caldo di sensualità. Continuamente si attua il rimando fra la realtà angosciante delle flebo, degli inquietanti silenzi dei medici e i paesaggi naturali, paradisi di bellezza e di felicità. A poco a poco, Franca si arrende al drago impietoso che l’aggredisce, si lascia dominare dalla volontà di arrendersi e di abbandonare “la vita che si fa mistero”. In questa atmosfera Carmelo si rivolge a Dio, l’essere altissimo mai dimenticato, lo invoca con un atto di profonda fede, con un’estrema e flebile speranza. Lo fa sulle orme del drammatico e commovente de profundis biblico. Dove sei Dio del miracolo, del mattino felice, delle stelle diamantine? E prosegue con un urlo che esprime l’interiore lacerazione. Non lasciarmi nel vuoto nero dei ricordi, ritorna Dio dei fiori, delle farfalle, delle quaranta stagioni che durò il tempo degli amori, l’alchimia suprema del cielo. È l’attimo fatale, è l’ultima lotta dell’amata contro il male che la smangia; in un’atmosfera di progrediente intensità emozionale si compie l’approdo al golfo della quiete suprema. Sei morta a mezzanotte, rinata tra le siepi ape di vento, comete, bagliori come volevi, come sognavi, favola bella e discreta, fata primizia di sogni e amori. L’ape e il calabrone è il libro dell’amore, vissuto e interpretato con una singolare altezza di sentimento. Nella Postfazione Lia Bronzi così si esprime: ”Dunque una poesia poematica dal verso lungo e narrativo, agile e intensa, ricca di ellenica musicalità che, nel vestirsi di echi evocativi e dolorosi, acquista per ossimoro, colori e magie.” Non con la morte di Franca termina la raccolta, segnata da un prima e da un dopo: seguono il tempo della vita di Franca e quello dopo la sua morte. Con un atteggiamento in parte naturale, in parte impostosi Carmelo Consoli si figura che tutto continui come negli anni della comune esistenza felice, con gli stessi ambienti dove i due sposi si sono conosciuti e hanno lavorato, con i medesimi gesti, con le reciproche, identiche parole d’amore. Poi, la nuda concretezza del reale prende il sopravvento, allora il poeta porta un fiore sulla tomba della sposa e ha parole appassionate pur nel dolore contenuto. Ciao Franca, amata sposa, ti lascio tra Martina e Salvatore altre vite, altre storie, altri anni di sogni negli occhi. A destra un fiore di campo, a sinistra di rose e lilium un mazzo. Vi lascio. Ancora Carmelo si domanda dove sia colei che è stata il centro e la ragione della sua esistenza. Non lui risponde, ma l’ amata che dal cielo gli si rivolge con una lettera in sogno: Ti scrivo da una luce che non so forse l’ultima galassia del cosmo, la cometa più lontana. Da questo cielo infiniti sorrisi, leggerezza d’amori come i nostri giorni alle piane, alle marine dei vent’anni. Sai la morte non è che l’ultimo istante dei ricordi più belli. Quasi alla fine della lettera ci sono tre versi di originale suggestione, di magica incisività che si pongono come un viatico allo sposo per la sua esistenza solitaria. Ti mando un bacio che è di Dio, delle anime serene, degli amori eterni. Sii felice. In questa silloge, al mondo terrestre descritto con versi incantati, esaltanti la natura e la bellezza, si uniscono la tensione metafisica e il sentimento della trascendenza che si evidenziano nel frequente colloquio con Dio. Mi sembra questa la cifra distintiva di un’opera dall’appassionato impegno lirico, in cui l’autore ha denudato la sua anima e bruciato se stesso, ripercorrendo un’esistenza che si è definitivamente compiuta, rivivendola poi con la vibratile sensibilità del poeta di autentico valore. Ermellino Mazzoleni Bergamo, 30 aprile 2012, festività di Santa Sofia. |