“L'Ape e il Calabrone” Commento critico di Anna Balsamo,
Vice Presidente Emerita della Camerata dei Poeti ed autrice della prefazione …(…)… “L'ape e il calabrone” di Carmelo Consoli: sappia il lettore che si trovasse soltanto di fronte a quest'ultima opera senza per caso conoscere la precedente, “Cortometraggi” che ambedue i libri fanno parte di quella che oserei definire l'aspra saga della metabolizzazione di un dolore: nella fattispecie, l'affannosa saga della metabolizzazione del lutto per la perdita dell'amata sposa di Consoli, Franca. Saga e metabolizzazione che iniziano con una lunga fuga in itinere per tutta l'Italia (se infatti Carmelo riediterà un giorno quelli che attualmente sono i suoi due più recenti libri di poesia -”Cortometraggi” e “L'ape e il calabrone”, questi sarebbero da unire in un unico volume o da farne un cofanetto. La fuga lunga tutta l'Italia, di “Cortometraggi” è alla ricerca di una soluzione, un perché, un appiglio che risolva l'allucinante senso di rigetto del dolore, la possessione intollerabile, l'assurdità della realtà della morte insopportabile ai viventi se non coltivando un credo religioso o inoltrandosi in una metafisica filosofica. Quello che l'autore ritornato poi desolato di fronte alla tomba di Franca si avvia a scoprire finita la febbrile scorribanda delle cromie caratteriali dei luoghi, nelle peregrinazioni della sua fuga di “Cortometraggi”, è traguardo posto anche alla fine a suggello di questo libro ed è anche la soluzione del teorema del rapporto tra vita e morte, tra vivi e morti, la chiave del ritrovato equilibrio per continuare a vivere, come una forza superiore comanda, come la vita comune ci obbliga a fare, come la nostra stessa igiene mentale vuole che sia. Sarà l'invisibile presenza di Franca quindi, che saprà configurargli un'ascosa verità, a liberare Carmelo dall'insostenibile peso del “non essere” di lei e libererà lei stessa dall'insostenibile peso del vivo dolore di lui, nel soffio evanescente d'un sogno in una sorta di lettera parlata, nella sacralità del tutto, sta la verità del vero. Prima di tale epilogo, durante il progredire del male di Franca con le “stazioni del dolore”, tracciate che presentiamo stasera, si riceve la sensazione di un'intercapedine trasparente sul sipario costantemente aperto sulla scena della memoria della felicità giovanile poi perpetrata in quella coniugale: la favola bella, propria “dell'ape e il calabrone”, velo dipinto che arazza il drammatico esiziale squallore del ricovero ospedaliero, mentre attraverso si proiettano, come in un esterno, le ombre di Carmelo e Franca tra ronzii complici fra l'erba ed i fiori: la favola che è stata un leitmotiv di coccole tra i due, continua là fuori ad avvenire, credibile ma ora impossibile parentesi rosa che nello scorrere dei giorni annienta la cognizione del tempo che passa ( un classico delle unioni coniugali ben assortite) per cui l'improvviso severo e tragico appello del male è duro e feroce come un colpo di mannaia, poiché la “continuità” d'un felice rapporto coniugale porta in dono di non smarrire la fanciullezza in un “continuo” di serenità fino all'età adulta. Solo quando la malattia e la morte strapperanno uno dei due, è un brusco risveglio di fanciulli nella maturità se non addirittura in un'arresa senilità. L'autore rappresenta nei suoi versi, il dolore attonito, disarmato al capezzale di Franca che come moglie era simbolo integrato con lui, della vita stessa e rovescia sulle pagine la cornucopia doviziosa di tutte le memorie degli aromi, delle vibrazioni, delle comunicazioni corpo ed anima del calore dei giorni lieti, di un ininterrotto innamoramento ricco di immagini quasi bibliche, edeniche con un eloquio da Cantico dei Cantici: è come se i ricordi battessero le nocche alle vetrate dell'ospedale per farsi aprire e poter irrompere a cambiare l'aria greve e ammorbata nella corsia. Già nell'anima del poeta il dolore, incide la storia ch'egli poi scriverà ma durante questo divenire ne è inconsapevole, ha un cuore che sanguina ed il lettore ne resta profondamente commosso data la capacità della scrittura di Consoli e data l'umana insita condivisione del lutto allarme costante nella memoria neuronica collettiva. “Il pianto antico“, come ci ha saputo dire Carducci. E' lo sfarzo dei bei ricordi elargito massivamente, con l'immanenza della morte di Franca, a dipingerci interamente la disperazione dell'autore; è come se uno “nell'appartamento” della sua vita tirasse fuori il contenuto di tutti i cassetti dei mobili e lo rovesciasse alla rinfusa per ogni dove in cerca di che? In cerca di che? D'uno scongiuro. D'un amuleto rimasto per troppo tempo nascosto ma che ci deve essere?. Un tale “enplein” di sensazioni, come produce il poeta attraverso le sue pagine non poteva che realizzarlo applicandosi ad una stesura poematica - narrativa regolando i tempi, le parti dell'accadimento che quindi lo rendono nella mente del lettore, spettacolo rappresentabile poiché Consoli sa scartare la tentazione dell'intimismo sostituendo ad essa la suggestiva obiettività dei fatti . Sembra invece, forse incoscientemente, istintivamente riecheggiare nella nostalgia descrittiva della sua terra e della sua vita l'ampiezza del canto di Quasimodo, ma nella stretta misura d'un omaggiare Franca, ininterrottamente. Non si inganni il lettore che ci si trovi di fronte a un malinconico materialismo edonistico: si accorgerà di come il poeta nel risolvere il nodo del suo angoscioso teorema sappia attingere a vertici di luminoso esoterismo. Quindi, come alla fine di “Cortometraggi” lo ritroveremo anche al termine di questo libro, ritornato dal suo pellegrinaggio, proprio di fronte al quadrato dove riposa la salma di Franca in cerca di un dialogo interrotto sul punto di un testamento spirituale non ancora enunciato; prossimo a un commiato serafico, sedata l'atroce bufera del distacco. Non è nuovo Consoli di mettersi in contatto con l'altra dimensione, l'aveva già fatto col padre, da tempo scomparso; in una bella ricordevole lirica: gli raccontava che ora non poteva vedere la sua nipote ( la figlia di Carmelo e Franca) divenuta giovane donna. Ha l'autore questa forza rappresentativa d'evocazione come molti di noi che possediamo nel sangue pensieri e voci dei nostri cari continuamente alimentate e captabili. Qui nel' ”L'ape e il calabrone” al contrario è Franca che oniricamente, ineffabilmente si esprime: c'è tutto, ed è il meglio, del giardino della vita là dov'è lei, in cielo “ d' infiniti sorrisi”; v'è come la trasfigurazione d'ogni cosa. Questa conoscenza metafisica di Franca che comunica all'autore che nulla è perduto, ansi è acquisto è come un imperativo a dismettere il pianto che di fronte alla felicità eterica da lei raggiunta, sarebbe una profanazione. Ed è così che Consoli, in quest'opera con l'aiuto angelicato di Franca ha saputo finalmente di una porta chiusa sulla vita, trovare la chiave per aprirla sull'infinito che è vita parallela sovrastante e specchiante la nostra però in purissimi cristalli. Nella dovizia emotiva, ed anche tecnica di questa bella e importante opera, Consoli si rivela nella sua attitudine a robuste costruzioni poetiche di cui certamente “L'ape e il calabrone” non sarà l'unico edificio anzi ne è la sicura premessa e promessa. Aggiungo che nessun commento critico può illustrare meglio sia il vissuto sia la metafisica di questa storia quanto la copertina di Andrea Gelici tutta”fauve”(riferendomi anche al colore fulvo) nel miele dell'amore e nel solare assurgere ai paradisi. |