“L'Ape e il Calabrone” Commento critico di Duccia Camiciotti
Vice Presidente in carica presso la Camerata dei Poeti Se mi è possibile vorrei parlare di getto, ex-abrupto, delle sensazioni che mi ha suscitato la lettura di questo libro: emozioni alterne: desolazione, puro dolore, pietà e – perché no?- raccapriccio e paura per la terribile “condizione umana” nella quale io stessa sono inserita. E infine, più trascinante d’ogni altro stato d’animo, la commozione, intensa, profonda, che più d’una volta mi ha strappato le lacrime. Ho letto, questo che potrei definire “un racconto in versi”, per giunta anche datato, tutto di seguito, quasi senza prendere respiro, per essere trascinata dalla fiaba all’orrore piatto e privo di senso dell’apparato ospedaliero, all’assurdità della numerazione tombale, funzionali entrambi, non c’è dubbio, quanto assurdi e decostruenti nel senso umanistico del termine. Un amore, intessuto di sogni, del fascino naturale espresso nella propria interezza, da metafore poetiche, da metafisici paragoni anche quando si tratta di allegoria della morte, ci fa comprendere quanto sia VITALE tutto questo, mentre la vera fine è quella che sopraggiunge improvvisa per motivi abnormi, quali l’azione d’un “mostro” non meglio definito ma letale nella sua mancanza di costrutto, e così fatto, forse, da poter essere paragonato al demonio per eccellenza, un orrendo Non-Si- Sa- Che, il quale s’annida nelle viscere dell’amata fino a distruggerne, non solo il corpo ma anche l’anima. Nella futilità di un apparato insignificante quanto meschino, s’infrange il senso della vita, si stravolge e muore ogni bellezza. Il Tutto viene espresso in uno stile apparentemente semplice, addirittura discorsivo, ma tale da incidersi crudelmente nell’anima, in modo realistico quanto simbolico. Ma sempre candido e ignaro. Si ha l’impressione che il nostro Calabrone sia all’atto pratico un fanciullo ingenuo posto di fronte alla distruzione e alle sue terribili armi che colpiscono in modo graduale ma sempre più orifico. Si è coinvolti nella sensazione d’una tremenda favola che in ogni occasione, per quanto negativa, stimoli la meraviglia, stordisca e confonda l’innocenza di fondo. E così è e deve essere per un vero poeta, così impreparati ci colgono i fenomeni ostentati dalla morte in tutta la loro crudezza. E quando riusciamo a paragonarli, squallidi come sono, ai “momenti” – potrei ben dire “musicali” della fiabesca ineffabilità del vero amore, quando si riesce in modo stilisticamente sornione, ad esprimere l’essenza della lirica e di per contro l’epico-macabro di certa realtà (che pure esiste anche se tutti tendono a nasconderla), allora si è chiaramente dei veri poeti. Vorrei, prima di continuare, spendere due parole sull’aggettivo SORNIONE, che qui non ha alcun senso furbesco (in punto sarebbe fuorviante e antitetico in tale cocente dramma), ma significa piuttosto un PIANISSIMO o un SUSSURRATO, per rimanere nell’ambito musicale e non solo, che, insinuandosi nell’ordito dei versi, li rende più persuasivi. Non dimentichiamo in ogni caso che questa lamentazione, seguendo la via classica di genere, tocca in modo diretto e umanissimo le corde più suscettibili della nostra sensibilità, coinvolgendoci fino all’immedesimazione. Ovviamente, gran parte di questo risultato si deve alla struttura del testo: infatti nella prima metà, circa, essa si presenta favolistica, e la nube della tragedia, anche se ben presente e minacciosa, rimane nel sottofondo in modo che potremmo definire statico, anche se con varianti. Veniamo trasferiti, pertanto, da un’atmosfera solare, aerea, che sollecita ed accarezza visioni sognate della metafora umana, questa volta sotto forma di due insetti ronzanti, uno color del sole e del miele, l’altro color della notte, ad una staticità interrogativa improvvisa, che tuttavia non cambia immediatamente la paesistica d’insieme, la quale rimane per un po’, anche se in modo sospeso e quindi marginale, in ambito pastorale –arcadico, con qualche fermento di sovversione . Ma a questo punto la caduta nel FAUVE è inevitabile, se così possiamo chiamare l’impietoso precipizio nello pseudo ingenuo – magico da tragedia. Prego considerare questi termini in chiave squisitamente letteraria, senza implicanze umane se non quella dell’effetto catartico sul fruitore. Nel quotidiano vasto e omogeneo nulla più abbiamo infine, se non il solo protagonista: il MOSTRO ormai padrone che sta divorando dall’interno il corpo dell’ape, una volta culla di delizie. Seguono tanti omini ormai inutili che si affannano come formiche intorno alla preda di recente catturata, ma questi ultimi vorrebbero salvare o almeno capire, scoprire,far progredire una scienza che, nell’agone contro il male, si rivela impotente e umanamente grottesca. Il tutto però, e non mi stancherò mai di ripeterlo, avviene in un tono sommesso, testimoniale e datato, conscio del non-senso, conscio dell’inspiegabile dolore. Persuasa che altri presentatori prima di me abbiano esposto il contenuto dell’opera, vedi fra l’altro Anna Balsamo e Lia Bronzi che l’hanno corredata, rispettivamente, di prefazione e di postfazione, ho preferito sottolineare l’aspetto – almeno a mio avviso – più singolare e affascinante, quello che la rende unica nel suo genere. La si potrebbe anche definire una shockante descrizione della morte, e un canto d’addio. |